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Marricordu, l'amarcord paternese
Pino Florio dà spazio alla memoria per un breve ma intenso ricordo di personaggi e situazioni paternesi di 50 anni fa Condividi su Facebook


Il nostro Pino nel corso di una conversazione via web con i parenti in Colorado
La notorietà del film di Fellini è tale che lo stesso titolo Amarcord (derivante per composizione dall'espressione in dialetto romagnolo a m'arcord, ossia io mi ricordo) è diventato un neologismo della lingua italiana, con il significato di "rievocazione in chiave nostalgica.
L'Antologia di Spoon River (Spoon River Anthology) è una raccolta di poesie che l'americano Edgar Lee Masters pubblicò tra il 1914 e il 1915 sul Mirror di St. Louis. Ogni poesia racconta, in forma di epitaffio, la vita di una delle persone sepolte nel cimitero di un piccolo paesino della provincia americana.
Non ho le capacità di regia del grande Federico nè l’ispirazione del poeta americano, magnificamente tradotto dalla compianta Fernanda Pivano che collaborò con Fabrizio de Andrè al disco, ispirato a Spoon River, Non al denaro, non all'amore nè al cielo.
Paterno non è certo famosa come Rimini, ma ha certamente un po’ di storia, fra tutte la meravigliosa avventura terrena e di santità di Francesco di Paola, che ha lasciato tracce perenni nel santuario quattrocentesco, nel ricordo dei suoi miracoli e delle sue virtù ascetiche ed ha un piccolo cimitero, la cui visita, ogni volta che riesco a farla almeno una volta all’anno, mi fa rievocare tante persone che ho conosciuto. In più, Paterno conserva ancora tradizioni, usanze, feste, memorie di un tempo lontano e ormai perso. Indro Montanelli diceva: Chi non conserva la memoria del passato sparisce e, col mio modesto contributo, vorrei evitare che ciò succeda ai paternesi residenti e lontani. Perciò, proverò, forse in modo empirico e con molte lacune, a rievocare quello che resta nella mia memoria, ossia il ricordo “fotografato” di Paterno sino ai miei 23 anni, cioè fino al 1961.

Carnuevaru - Il carnevale
La tradizionale festa in maschera era molto attesa e sentita in tempo di divertimenti semplici e autogestiti. Scherzi, a volte un po’ cattivelli tra grandi e adulti, ma il clou era il corteo finale dell’ultimo giorno. A sera, ormai in un buio illuminato dalle fioche lampade pubbliche di allora, con fiaccole, stramazzi, pianti e urla di un corteo disordinato e scomposto, adagiato su una lettiga, portato da 4 buontemponi, sfilava Carnuevaru, avvolto in un bianco lenzuolo (quante discussioni con le mamme per farsene dare uno, perché inevitabilmente, alla fine, andava perduto!), mascherato e irriconoscibile, fingeva di morire in mezzo al frastuono e con una bella sazizza in bocca!
Ed il giorno dopo, mercoledì delle Ceneri, era penitenza, astinenza e digiuno, e dalla mezzanotte cessava ogni divertimento e chiasso e si praticava una rigida Quaresima: ma non era difficile, il tempo quaresimale era facilitato da bassi redditi, da scarsità di cibo e da una vita per molti grama e misera.
Per saperne di più consiglio la lettura di questo articolo.

San Francesco di Paola

La facciata del Santuario in una foto del 1907. A destra sono visibili i locali che ospitarono le aule della scuola elementare fino agli anni '50.
La seconda domenica dopo Pasqua si celebrava la grande festa di San Francesco di Paola, grande taumaturgo e protettore di Paterno ove è rimasto per nove anni e che ospita il suo Santuario convento del '400.
Festa religiosa e civile, con una novena, Sante Messe, con banda musicale,(in genere veniva dalla Puglie, sede rinomata di complessi bandistici, a gara con i paesi vicini che avevano feste analoghe per i santi protettori), fiera grande e fiera piccola nel piazzale antistante il Santuario ('a fera e 'a fericella). Dopo una settimana di preparazione, la domenica Messa cantata, con un rinomato oratore religioso, processione del Santo che sostava davanti ad ogni abitazione per le offerte, piccole o grandi a seconda delle possibilità, e che spesso erano in dollari provenienti dai parenti emigrati nelle Americhe e si vedeva la statua del Santo con una stola dorata, ove ognuno appuntava con spilli, le banconote. Per cui, sacro e profano, povertà di Francesco ed ostentazione – anche qui gara per le offerte più alte, erano esibite senza ritegno alcuno. Visitatori, soprattutto stranieri, mostravano stupore per la religiosità quasi superstiziosa dei calabresi, ma in fondo, io credo, c’era sincerità e fede semplice anche se incolta.
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Dott. Battistino Puppio
L'ultimo medico condotto di vecchia generazione a Paterno: poi vennero le Usl, Asl, Guardie mediche, orari, turni ecc. Il dott. Puppio non era nato a Paterno, ma dagli anni '40 sino agli anni '70 è stato 'u dutture di tutto il paese, sempre in servizio, notte e giorno, in paese e in campagna, a piedi, col mulo, poi con l’auto, ambulatorio e visite domiciliari, amico e consolatore e un sorriso per tutti. Amava i classici, la musica, la Calabrisella, quando poteva e quando se la poteva concedere con gli amici, e se non veniva interrotto da una chiamata vocale (non c’era telefono) per un malato che magari era lontano, in campagna, con pioggia o vento d’inverno e afa d’estate.

Don Gaetano Napolitano
L’ultimo parroco nativo di Paterno, animatore del Partito popolare prima e della Democrazia Cristiana poi, ha restaurato la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo e costruito l’annessa casa parrocchiale, ha tenuto in funzione il romitorio di San Marco, celebrandovi durante l’anno la Messa e portando i ragazzi in ‘’collina’’ per un periodo di un mese d’estate (la colonia estiva) con le Suore che preparavano i pasti e svolgevano le mansioni di sorveglianza e assistenza. Alternava l’uso della Chiesa Parrocchiale dei SS.Pietro e Paolo con quella contigua dell’Immacolata. In tal modo, tra frequentazione e manutenzione, le due Chiese rimanevano integre al contrario di quello che avviene oggi per S. Giovanni, Santa Barbara, Tutti i Santi, San Marco (ormai un rudere).
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Mestieri ed artigiani
A Paterno mestieri ed artigianato erano le poche fonti di lavoro e di reddito, quasi sempre “in natura”. Numerosi i sarti, i falegnami, le tessitrici i calzolai, sparsi tra Calendini, Capore, Casal di Basso. Ne ricordo qualcuno per tutti, a partire da Alessandro La Neve oggi in riposo strameritato e ultracentenario, sarto della buona borghesia cosentina, che a casa dei clienti si recava, in pullman, con la sua valigia.

Luigi Marrello, titolare dell'omonimo panificio a Merendi.
C'era poi la carissima Giulietta Filosa che mi teneva sveglio col suo tessere incessante nel magazzino di fronte a casa mia, e alla quale ricche famiglie di Cosenza e paesi vicini come Rogliano commissionavano il corredo per le figlie.

Pasqualino Cozza, "storico" fabbro ferraio paternese, in divisa da soldato.
E ricordo l’unico fabbro ferraio di Paterno, Pasqualino Cozza, che aveva la “forgia” sopra la vecchia Posta dove sostavano muli, cavalli, asini per la ferratura e a lui si commissionavano serrature, zappe, vanghe e altri strumenti di lavoro. I ragazzi si divertivano a pedalare sul mantice per tenere vivo il fuoco che arroventava il ferro. Io ero molto amico e lui mi raccontava la sua tremenda esperienza dell’ultima guerra mondiale alla quale aveva partecipato e poi si finiva per discutere dei “massimi sistemi” politici degli anni 50, 60, comunismo e anticomunismo, Democrazia Cristiana e destra, insomma un fabbro "intellettuale" al quale piaceva la politica, controcorrente, e che leggeva.
Numerosi i calzolai: i fratelli Filosa, Pietro e Basilio, quest’ultimo poi panettiere a Cosenza, ed Enrico Florio a Via Roma, Luigi Casciaro, con bottega vicino all’Immacolata, forse l’ultimo dopo tante partenze per gli Usa degli altri, e poi altri a Capore e Casal di Basso, dove operavano, fino a trent'anni fa, Francesco Caputo (detto per l'appunto 'u Piciaru), e Saverio Caputo.

Enrico Florio a Denver, nel 1954.
Ogni frazione aveva i suoi calzolai che, spesso, coperto 'u bancarellu, si improvvisavano barbieri per taglio di capelli e barba: ci si doveva arrangiare in ogni modo ed un salone di barba e capelli esclusivo non era redditizio.
Molti erano i falegnami, veri artisti del legno, anche essi poi quasi tutti emigrati e divenuti a New York ricercati come Giuseppe Ferraro che costruiva il mobile artistico degli orologi Big Ben e splendide cucine che ha passato il mestiere ai figli, nati in Usa, e tornati a Paterno.
Molti di questi artigiani, giovani e meno, si recavano in USA, ove da ciabattini e sarti diventavano ben preso proprietari di grandi e lussuosi “store” di calzature o vestiti. Ho avuto la fortuna di incontrarne qualcuno a New York e con molti di loro ho frequentato le elementari.


Don Raffaele Trozzo

Il compianto don Raffaele Trozzo, all'epoca in cui era parroco a Calendini.
L’ultimo Parroco che la Chiesa di San Pietro e Paolo ha avuto dagli anni '50 sino agli anni '70. Entusiasta, disponibile, animatore dell’Azione Cattolica, rammaricato sempre di vedere i suoi giovani andare via a cercare, per forza di cose, lavoro altrove. Coraggiosamente ed invano tentò di attrarre intorno a sé un gruppo di giovani per dare a Paterno una amministrazione locale sana, onesta ed efficiente. Si scontrò con destra e sinistra, ha fustigato con coraggio il diffuso malaffare politico locali e, incompreso, deluso, lasciò Paterno, per Mendicino suo paese natale, dove poi si è spento prematuramente. Figure dolci, affettuose, buone i suoi genitori, amici e vicini a tutti i paesani.
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Paterno e la Juventus

Il dottor La Neve in divisa da tenente.
Ma che c’entra, diranno i miei dodici lettori (Manzoni, ti ho rubato la citazione!). Abbiamo curato la Juve negli anni 70 e 80 e anche la pleurite di Roberto Bettega. Parlo di Franco La Neve, medico, ufficiale di Cavalleria a Pinerolo, da dove Gianni Agnelli lo chiamò alla Juve. Si era dedicato alla ricerca farmaceutica che ha poi lasciato per la squadra bianconera che oggi ha bisogno non di un medico ma di un santo (A Torino c’è una bellissima chiesa di S. Francesco di Paola...).
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La diaspora

Emigrati paternesi in una foto degli anni '50.
Tra il 1861 e il 1985 sono state registrate più di 29 milioni di partenze dall'Italia. Nell'arco di poco più di un secolo un numero quasi equivalente all'ammontare della popolazione al momento dell'Unità d'Italia (25 milioni nel primo censimento italiano) si trasferì in quasi tutti gli Stati del mondo occidentale e in parte del Nord Africa. Si trattò di un esodo che toccò tutte le regioni italiane. Tra il 1876 e il 1900 l'esodo interessò prevalentemente le regioni settentrionali con tre regioni che fornirono da sole il 47 per cento dell'intero contingente migratorio: il Veneto (17,9%), il Friuli-Venezia Giulia (16,1%) ed il Piemonte (12,5%). Nei due decenni successivi il primato migratorio passò alle regioni meridionali. Con quasi tre milioni di persone emigrate soltanto da Calabria, Campania e Sicilia, e quasi nove milioni da tutta Italia. Si può distinguere l'emigrazione italiana in due grandi periodi: quello della grande emigrazione tra la fine del XIX secolo e gli anni trenta del XX secolo (dove fu preponderante l'emigrazione americana) e quello dell'emigrazione europea, che ha avuto inizio a partire dagli anni cinquanta. La simbolica data d'inizio dell'emigrazione italiana nelle Americhe può essere considerata il 4 ottobre 1852, quando venne fondata a Genova la Compagnia Transatlantica per la navigazione a vapore con le Americhe. L'emigrazione nelle Americhe fu enorme nella seconda metà dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento. Quasi si esaurì durante il Fascismo, ma ebbe una piccola ripresa subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Le nazioni dove più si diressero gli emigranti italiani furono gli Stati Uniti nel Nordamerica, ed il Brasile e l'Argentina nel Sudamerica. In questi tre Stati attualmente vi sono circa 65 milioni di discendenti di emigrati italiani. Una quota importante di Italiani andò in Uruguay, dove i discendenti di Italiani nel 1976 erano 1.300.000 (oltre il 40% della popolazione, per via della ridotta dimensione dello Stato). Quote consistenti di emigranti italiani si diressero anche in Venezuela e in Canada, ma vi furono anche nutrite colonie di emigranti italiani in Cile, Peru, Messico, Paraguay, Cuba e Costa Rica. Praticamente l'emigrazione massiccia italiana nelle Americhe si esaurì negli anni sessanta, dopo il miracolo economico italiano, anche se continuò fino agli anni ottanta in Canada e Stati Uniti. (fonte Wikipedia)

Emigrati paternesi in una foto degli anni '50.
In questo contesto Paterno, sino alla seconda guerra mondiale, ha offerto un grande contributo alle economie europee e americane con una emigrazione a cifre bibliche, e credo si possa affermare che siano partiti tanti quanti sono gli abitanti ed il paese si è mantenuto tra i 1200 e 1550 abitanti, grazie ad un alto tasso di natalità, spontanea o "imposta" durante il ventennio fascista, per "raggiungere gli otto milioni di baionette".
Il flusso migratorio ricomincia dal 1950 in poi: la meta ambita erano gli Stati Uniti: non a caso, New York era definita la città italiana più grande del mondo. A Staten Island ho incontrato, ad una festa di matrimonio di una nipote di un paternese, tutti i miei compagni di infanzia, più grandi o più piccoli. Ovunque ho trovato compaesani, che esercitano attività commerciali e professioni. Ognuno aveva una storia, un ricordo e tanto amore ancora per la patria matrigna. Si sono spopolate le misere campagne e orrende case coloniche ed il centro abitato: in passato lunghi viaggi in nave, poi l’aereo ha facilitato e reso frequenti i ritorni per vacanze e per ritrovare parenti ed amici. Un paese come Paterno sino a 50 anni fa aveva come unica o quasi fonte di reddito le rimesse degli emigranti e tra le valute europee e d’oltremare il dollaro ($) era il più apprezzato.

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La scuola

Il professor Napolitano.
A Paterno sino a metà degli anni '50 non c’era un complesso scolastico unico e dedicato: per ogni frazione locali di vario tipo, senza servizi igienici e riscaldamento, spesso fatiscenti e maltenuti, erano adibiti ad "aule". A Piazza san Francesco, annesse al Convento (c’era una scala esterna a destra del campanile per l’accesso al piano superiore, poi provvidamente demolita alla restituzione dei locali al Santuario) un’aula al piano terra (la signora Dora Caputi teneva le pluriclassi prima, seconda e terza elementari), al primo piano Salvatore Napolitano, maestro di generazioni di Paterno, chiamato sempre "professore", teneva la pluriclasse quarta e quinta elementare (a quest’ultima si arrivava in pochi) e preparava, con dedizione e amore, quei pochi che proseguivano per la scuola media per la quale era obbligatorio l’esame di ammissione a Cosenza, perchè a Paterno non c’erano le Medie.
POST SCRIPTUM: Imprecisioni, ricordi sfocati, omissioni sono del tutto involontari e questo scritto è un atto d’amore per il mio paese natale. Grato a chi vorrà segnalarmi fatti, ricordi e mandare foto: sarò lieto di riprendere l’argomento.

Roma, 21 marzo 2011

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