Home   
Come eravamo   
Santuario   
Testimonianze     
Curiosità   
'A chiazza     
Contatti   
Cerca   
Mappa del sito   
paternocalabro .it
  IL PORTALE DELLA COMUNITA' PATERNESE NEL MONDO
Home > Come eravamo   
 

... VIVA CARNUEVARU!


Nella piazza del paese, un Carnevale di tanti anni fa...

Come la tradizionale festa in maschera veniva vissuta a Paterno negli anni '50

Carnevale, Carnuevaru, è alle porte e lo si vede nelle pasticcerie che espongono castagnole e frappe, o almeno, così si usa a Roma ed in quasi tutte le città e i paesi d’Italia: nel mio natio Paterno, quando ero bambino intorno ai 10 anni, non esistevano bar e pasticcerie sino ai primi anni ’60.
Il Carnevale era caratterizzato da sazizza e vruocculi ‘e rapa, da semplici mascherate sia individuali che di gruppo, dal corteo, a mò di funerale, nell’ultimo giorno, il martedì grasso, che ne decretava la fine per morte da indigestione, e cominciava, con il mercoledì delle Ceneri, la Quaresima e quindi il digiuno e l’astinenza dal consumare carne: in verità, questo non costituiva un difficile e grande sacrificio, perché carne dai più se ne consumava pochissima e soltanto in particolari festività dell’anno e la domenica da parte di famiglie più abbienti. La carne era disponibile solo se un saltuario macellaio, avendo acquistato o allevato una bestiola, per lo più capretto o agnello, difficilmente bovini, raccoglieva prenotazioni di acquisto sufficienti a smaltire l’intera bestiola.
A questi segnali si aggiungevano, per coincidenza temporale e climatica, l’uccisione a casa (non esisteva macello pubblico e quindi obbligo di andarvi per la bisogna) e la lavorazione del maiale ('u porcu) le cui diverse fasi duravano una settimana, con cure e impegno successivi che si prolungavano per molto tempo. Di maiali se ne ammazzavano uno o due per famiglia, ed era tutto un gran grugnire di povere bestie, finite ccu nu scannaturu, coltello appuntito e tagliente adibito esclusivamente a questo uso, per raccogliere il sangue non rappreso, base di budini dolci o pietanze salate. E dovunque, in giro per il paese, era possibile vedere le fumate delle quadare del grasso e delle frittole e sentirne il profumo.
La mattina dell’uccisione del maiale, in genere il giovedì grasso, una squadra di uomini esperti si recava nella casa ove era richiesta la loro opera e, dopo l’uccisione, il maiale, spaccato in due, era fatto frollare in una stanza fredda e ventilata mentre nei giorni successivi si procedeva alle varie lavorazioni, che richiedevano esperienza, competenza, una vera arte insomma che si tramandava per generazioni, quali sazizze, supressate, prisutti, panzarella, vuXXulu [ ahimè, la tastiera del mio pc non ha la consonante gutturale aspirata ch dell’alfabeto greco ], frittule, suzu. Il primo e ultimo giorno, quello delle frittule, si offrivano ai lavoranti, ai parenti e agli amici, con tavolate immense, due pantagruelici pranzi, annaffiati da generoso vino rosso di produzione locale. Lo scrittore Corrado Alvaro, narratore delle tradizioni della sua Calabria, ricorda che cu si marita è cuntentu nu jornu, cu ammazza u porcu è cuntentu n'annu; in effetti, il maiale era la provvista di carne e calorie per un anno intero in un’epoca di precarie condizioni e tenore di vita. Il maiale era allevato, con mangimi naturali quali castagne, ghiande, crusca e all’aperto, nell’anno antecedente l’uccisione e c’erano ambulanti, che venivano da fuori e vendevano i maialini, rivotu, da loro stessi allevati in campagna e non certo importati dalla Cina!
Tornando alle tradizioni del Carnevale c’è da ricordare che a Paterno, come altrove in Calabria, questa ricorrenza significava lazzi, burle, allegre e grandi mangiate, a base di carne di maiale, verdure quali broccoli e cavoli. Non mancavano neppure i tipici dolci d’occasione quali le chiacchiere, o frappe, o cenci e le pignolate.
Il Carnevale si svolgeva in tre giorni, giovedì grasso, domenica e martedì ultimo di Carnevale durante i quali le strade si trasformavano in luoghi di mascherate, veri teatri all’aperto come all’epoca della commedia dell’arte o del carro di Tespi.
I bambini erano mascherati con abbigliamenti rimediati dalle mamme, gli adulti con travestimenti un po’ più elaborati: in genere si usava che gli uomini vestissero da donna e viceversa, e per il trucco si faceva ricorso ad una tintura sul volto con un sughero affumicato o carboncino. Si recitavano poi testi improvvisati o imparati da vecchi canovacci contenuti in quaderni custoditi gelosamente da qualche insegnante che fungeva da regista, suggeritore, organizzatore. In molti casi capitava che gli stessi attori nella Settimana Santa avrebbero poi impersonato Gesù, Giuda, Pilato, Caifa e gli apostoli, addestrati e guidati dallo stesso maestro elementare: ricordo a questo proposito Carso Tolmino che, oltre ad essere un bravo insegnante, era anche fotografo dilettante, soprattutto nelle occasioni della Prima Comunione.
I personaggi di queste rappresentazioni in maschera erano legate ad uno schema narrativo assai semplice: si ricostruiva la vita di paese e quindi non mancavano u zitu e a zita, ma anche u prievite, u medicu, u sinnnicu. Peraltro, erano queste anche le uniche occasioni in cui si poteva fare satira sui signori e sui potenti locali.
L’ultimo giorno, il corteo-funerale di Carnevale percorreva le strade del paese, e si muoveva tra urla e pianti, con ritornelli monotoni e comici (su tutti il lamento E' mooortu, è mooortu Carnuevaru!), con frequenti soste e bevute dalle bottiglie che i ragazzi e gli adulti in maschera portavano con sé. Numerose erano anche le soste nelle case che si trovavano aperte al passaggio del corteo. E qui, non mancava l'offerta di cibo, dai dolci alle purpette, alla carne di maiale.
Il Carnevale era rappresentato da un pupazzo disteso, alla cui realizzazione ci si era dedicati con cura nelle giornate precedenti la festa. In alcuni casi il pupazzo veniva sostituito da un uomo in carne ed ossa, che si distingueva magari per qualche particolarità fisica, e spesso tutto questo avveniva anche contro la stessa volontà dell'individuo. Il pupazzo o l'uomo che rappresentava Carnevale aveva in bocca una salsiccia ed era portato su una barella, come se fosse morto di indigestione. Dietro la barella, portata a spalla da quattro persone, si creava spontaneamente un corteo chiassoso di ragazzi e adulti mascherati, che si concludeva in piazza. Qui veniva allestito un rogo con l'intento di bruciare Carnevale: se il personaggio era rappresentato da un uomo in carne ed ossa, ovviamente al suo posto veniva bruciato un pupazzo.
Quest'ultima scena poneva fine, intorno alla mezzanotte, all’allegria, alle abbuffate, alle bevute e segnava l’inizio della compostezza e della penitenza quaresimale.
Non saranno stati i cortei elaborati, sontuosi come a Viareggio o a Putignano o a Rio, ma quelli vissuti a Paterno, in quegli anni lontani, avevano un’aria di poesia semplice, spontanea, erano occasioni di vita e di cultura e popolare ben radicata nella memoria, di cose che profumavano d’antico, di tradizioni tramandate da nonni a padri e da questi ai figli, in una parola, autentiche feste e momenti di gioia in un ambiente semplice, ancora legato alla vita dei campi e ai mestieri, senza artificiose manifestazioni industrializzate.
Ma tutto questo è finito e, parafrasando Manzoni, si deve concludere che così va spesso il mondo o così andava allora.

Pino Florio


Leggi anche:

  • La scuola e la festa
  • La memoria è ricordare

  •  

    (c)1996-2008 Copyright PaternoCalabro.it - Tutti i diritti riservati. Hosting by VaiSulWeb