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IL RITO DEL MAIALE
Cronistoria di quella che in passato era una festa per l'intera civiltà contadina Condividi su Facebook


In passato, ogni famiglia allevava almeno un maiale all'anno
Quello del maiale è senza dubbio uno dei riti che si inseriscono appieno nel novero delle tradizioni classiche della civiltà contadina, in voga a Paterno e a moltissimi altri centri piccoli e grandi. Possiamo anzi ritenere che la locuzione dialettale usata (fare 'u porcu) per indicare la macellazione del maiale per uso familiare sia diretta discendente di quel fàcere usato dai Latini per indicare il sacrificio del medesimo animale in onore dei Lari, i geni tutelari della casa e della famiglia, fatti oggetto di grande venerazione. Per uccidere un maiale bisognava prima allevarlo: questa attività, a ben vedere, poteva essere esercitata da ogni famiglia, considerati i costi relativamente bassi che comportava, a fronte, poi, di un ritorno ben più redditizio con quanto se ne ricavava in seguito all’uccisione dell’animale. Addirittura, considerata la numerosità di molte famiglie, spesso il numero dei maiali allevati era superiore all’unità. Fino a qualche decina di anni fa, ogni famiglia teneva il proprio maiale vicino a casa propria, o nel magazzino adibito a porcile accanto alla propria abitazione (catoju) o in un recinto costruito con quattro assi ed un po' di lamiera (zimma). Negli ultimi decenni, la giusta imposizione di rigorose norme igieniche decretate dalla collettività ha stabilito la locazione dell'allevamento suino per uso familiare solo in campagna, o comunque in zone lontane dal centro abitato. Al maiale allevato venivano offerti come sostentamento gli avanzi del cibo, solitamente sciolti nell’acqua (vrudata), la crusca rimasta dalla sfarinatura dei cereali (canigliata) e, specialmente nella fase conclusiva dell'attività svolta per far crescere l'animale fino al completo sviluppo, le castagne trattate in vario modo, che peraltro non mancavano in nessuna casa data la presenza degli estesi castagneti delle nostre montagne. Il cibo da destinare al maiale era predisposto all’interno di un apposito trogolo (scifu) realizzato per l’occasione utilizzando il legno degli alberi della zona. Se tutto andava per il verso giusto, il maiale cresceva, fino ad ingrassarsi con il passare dei mesi. Se questo invece non avveniva, e il maiale si ammalava o comunque non ingrassava per quanto dovuto, si interveniva in due modalità: o con la rarichicchja (il rizoma dell'elleboro nero) da infilare in un taglietto aperto nell'orecchio dell’animale, o con il suo capponamento, operato dall’esperto (il cosiddetto grastature), che col taglio del suo coltello affilato rimediava prontamente allo svantaggio, cercando di far recuperare peso al povero animale.

L’uccisione del maiale
Il giorno stabilito per l’uccisione del maiale cadeva solitamente nei mesi di gennaio o febbraio, ma, più generalmente, in una fascia di tempo a partire dal giorno di S. Stefano (26 dicembre) e fino alla domenica di Carnevale. Come tutti i riti, anche quello del maiale richiedeva la massima importanza da parte del nucleo familiare interessato: la data era stabilita con un certo anticipo, e poteva prevedere anche una serie di calcoli legati alla posizione della luna (che, per auspicare la buona riuscita delle operazioni, doveva essere in fase calante), e, in corrispondenza di quei giorni, tutte le altre attività, comprese la scuola dei ragazzi o il lavoro degli adulti, venivano sospese. Anziani e adulti, uomini e donne, predisponevano tutto l'occorrente adatto alla bisogna, a partire dalla grande madia (maìlla), nella quale per mezzo dell'acqua bollente si sarebbe dovuto rasare il maiale ucciso per privarlo delle setole (queste ultime, secondo quanto riporta lo storico Gerardo Giraldi, non si sarebbero gettate via, ma tenute da parte per darle al calzolaio amico che usava nettarle in cima allo spago impeciato con cui cuciva la tomaia alla suola, e che non avrebbe mancato di contraccambiare il regalo a suo tempo con un paio di mezze suole gratuite). C’erano poi, oltre ai coltelli di varie misure e forme, i contenitori dalla forma e dall’uso particolare: gli imbuti con cui riempire di carne gli intestini dell'animale e farne salsicce e soppressate, i pignatelli da riempire con lo strutto e i vasi (sauaturi) per la carne salata, che dovevano essere lavati accuratamente con la uessìa, un miscuglio costituito da acqua calda e cenere di legna. Generalmente, il maiale veniva ucciso di mattina presto, onde avere a disposizione tutto il resto della giornata per il disbrigo delle altre attività connesse a questa

Generalmente, il maiale veniva ucciso di mattina presto, in campagna.
operazione. L’animale veniva prelevato dal suo luogo di ricovero e portato in uno spiazzo all'aperto: qui, lo si legava ad un ramo biforcuto (‘mpennituru) e lo si uccideva: l’operazione non era affatto agevole, poiché l’animale, intuendo il pericolo, esercitava ogni possibile resistenza, e la sua mole non era divenuta certo trascurabile. Durante l’operazione, mentre gli uomini erano intenti a tenere ferma la povera bestia, vi era generalmente una donna che si preoccupava di raccoglierne il sangue in un contenitore, rimescolandolo ben bene, e destinandolo poi alla preparazione del sanguinaccio che avrebbe allietato grandi e piccini. Sempre dall’attento Giraldi rileviamo che solitamente la pinna del fegato avvolta nell'omento o la longa del filetto, considerate le parti più pregiate, venivano recapitate in dono quale stimanza alle persone di un certo riguardo che non avevano l'obbligo della restituzione; al contrario tale obbligo esisteva per i parenti e gli amici che avessero ricevuto il medesimo dono.

Le frìttue
Una volta morto, il maiale veniva pesato con l'apposita stadera (statìua), quindi spaccato in due e portato a casa del proprietario, nel luogo destinato alla macellazione. Qui, solitamente il giorno dopo, per dare alla carne tutto il tempo per raffreddarsi e consolidarsi per i molteplici usi cui era destinata, aveva inizio l’operazione più delicata, la cosiddetta spazzunàtura: il corpo dell’animale veniva sezionato in modo puntuale e dettagliato, in modo da separare una ad una ogni singola parte, da utilizzare per gli usi opportuni. L’operazione vedeva la presenza di esperti artigiani dell’anatomia suina: se in casa non vi erano persone con questa esperienza, si provvedeva a chiamare l’esperto, che, oltre all’invito alla degustazione delle frìttue, sarebbe stato ricompensato adeguatamente in natura con parti dell’animale appena trattate. Mentre l’attività di sezionamento era in corso, altri provvedevano a preparare l'enorme caldaia (quadàra), che era stata realizzata con molta probabilità da un maestro dipignanese e che sarebbe stata destinata ad ospitare la carne da cuocere successivamente. Onde confermare il carattere prettamente popolare, a metà tra il religioso e il superstizioso, della cosa, ad uno dei manici della quadara veniva attaccata una piccola croce di legno, in modo da far sì che essa salvaguardasse il prezioso contenuto e favorisse la quantità e la buona qualità dell’operazione. Intanto che la caldaia bolliva allegramente sul fuoco tenuto costantemente acceso, si diramavano gli inviti ai parenti ed. agli amici per sollecitare la loro partecipazione al banchetto che avrebbe avuto luogo all'atto della levata del grande recipiente dal fuoco, previa raccolta dello strutto che nel frattempo si sarebbe depositato candido e profumato sulla superficie della massa gelatinosa contenuta in esso. Giunta l'ora stabilita, gli invitati affluivano allegri e contenti e, dopo i convenevoli di uso in simili circostanze, prendevano posto al grande tavolo della cucina e si apprestavano a consumare le succulente frittue, che erano state preparate con pezzi di carne, orecchie, zampe, grugno e lardo, nonché con le cotiche del maiale, bollite a lungo nel grasso. La tradizione prevedeva che le frittue fossero servite a tavola con le verze (cappucci) e la scarola. Il tutto veniva ovviamente accompagnato con pane miglino dal caratteristico colore giallo, e innaffiato in abbondanza con il vino che era stato prodotto in quella casa e che il capofamiglia generoso ed ospitale, da raffinato anfritrione, non faceva mai mancare nei bicchieri dei presenti. Il banchetto si prolungava a lungo tra gli scherzi rumorosi, i brindisi augurali, i motteggi ed i salaci commenti agli immancabili episodi di cronaca paesana, mentre il grosso ceppo scoppiettava allegramente nel largo camino e la padrona di casa si faceva in quattro perché nulla mancasse sulla tavola.

La lavorazione delle carni
Il giorno seguente, di buon’ora, si provvedeva alla scelta dei pezzi di carne da destinare alla preparazione dei salumi. Ciascun pezzo veniva salato a dovere, pepato ed impastato adeguatamente. Lo storico Gerardo Giraldi ricorda che prima di iniziare a riempire gli intestini dell'animale con la carne preparata a questo scopo (le budella erano già pronte per essere state attentamente ripulite con acqua e aceto), si prendeva un pugnello di carne tritata, il cosiddetto provatùru, e lo si cuoceva sul fuoco per saggiare la giusta distribuzione del sale e del pepe nell'impasto. I tipi di salame che si riuscivano a ricavare dal maiale macellato comprendevano anzitutto il prosciutto ('u prisuttu) e la salsiccia ('a sazizza): il primo era fatto con la coscia del maiale, salata per quaranta giorni, pepata e messa ad asciugare al fumo del focolare domestico o all'aria. La salsiccia, invece, era confezionata con la carne tagliuzzata, impastata con pepe, sale e semi di finocchio selvatico ed insaccata nelle budella più strette dell'animale ucciso. Ancora Giraldi ci ricorda che il salame migliore, in quanto più ricco di sugo, oltre che di più facile conservazione, era quello che veniva preparato con l'intestino retto del maiale, volgarmente detto cùarìnu. La salsiccia veniva stretta ogni dieci o dodici centimetri, a volte anche di più, con dello spago, in maniera da ottenere cinque o sei rocchi indipendenti l'uno dall'altro e che assieme formavano come una lunga collana detta cullùra. C’era poi il ballo (o capeccollu), che si otteneva utilizzando un pezzo di carne bislungo tagliato dalla regione dorsale della bestia, proprio vicino al collo ed avvolgendolo nella vescica della stessa, e che veniva poi salato e pepato in giusta misura, e, dopo essere stato legato tutt'intorno strettamente con lo spago, veniva appeso al fumo del camino o in ambiente bene arieggiato, affinché potesse asciugarsi ben bene. E ancora: la soppressata (o supressàta), prodotta con carne magra e grassa in misura adeguata, trinciata, salata, pepata ed insaccata nell'ultima parte dell'intestino del maiale. Bene stretta dallo spago che l'avvolgeva, veniva posta sotto il peso di una grossa pietra detta suppressu (da cui il nome), perché diventasse tanto compatta da potersi mantenere a lungo senza alterarsi. Anche per la soppressata si utilizzava la parte terminale dell'intestino dell'animale e con ottimi risultati ai fini della conservazione e del sapore. Alla soppressata più grossa della serie, infine, che normalmente si conservava nello strutto, si dava il curioso nome di orva o supressatùne (soppressata molto grossa). Un altro tipo di salsiccia era quella di fegato('e ficatu): si usava confezionarla col medesimo procedimento seguito per la preparazione della salsiccia, ma utilizzando il fegato dell'animale insieme con poca carne, magra e grassa, debitamente trinciata ed aggiungendo poi un po' di aglio e del prezzemolo. La pancetta (’a panzarella) veniva invece ricavata, come si deduce dal nome, dal ventre dell'animale tagliato a grandi pezzi, che, dopo essere stati salati e ricoperti di pepe rosso, erano messi ad asciugare all'aria o al fumo del camino. C’era poi la giogaia (vujjuàru), e per prepararla si adoperava la parte del maiale che dalla gola arriva al petto e caratterizzata da numerose pieghe; si salava, si cospargeva di pepe e si lasciava asciugare. Curioso il nome dato alla gelatina (sùzu), la cui preparazione prevedeva l’utilizzo delle zampe, della cotenna, della costata e della testa dell'animale, con l'aggiunta di carne magra: il tutto veniva solidificato mediante raffreddamento e con dell'aceto, e si aromatizzava con alcune foglie di lauro. C’erano poi i ciccioli (a Paterno frìsui, nel cosentino scarafuogli), ovvero quei pezzetti di carne di maiale sciolti al calore del fuoco nella caldaia, dopo che se ne era cavato lo strutto, che, se cotti a dovere, erano gustosi e sostanziosi. Proseguendo, si otteneva la cosiddetta carne salata (carne 'ncantaràta), che era costituita dalla cotenna e dalla costata del suino poste sotto sale negli speciali contenitori di argilla di forma cilindrica, i garretti (garrùni), preparati con i garretti dei maiale riempiti con la carne rimasta dalla lavorazione delle soppressate e cuciti tomo tomo con lo spago, in maniera da ottenere qualcosa come delle borsette da donna. Si conservavano affogati nello strutto e quando venivano messi in tavola con fave o piselli rivelavano tutto il loro profumo ed il sapore gradevolissimo. C’era poi lo strutto ( ‘u grassu), che si ricavava dalla bollitura in acqua delle parti grasse del maiale e si conservava nei contenitori di creta panciuti e dalla bocca larga (pidànni) o nella vescica (vissìca) del medesimo animale. Ancora Giraldi ci ricorda che proprio lo strutto un tempo era usato largamente nella comunità locale in sostituzione dell'olio d'oliva, lo è molto meno oggi perché mal tollerato dagli stomaci delicati delle attuali generazioni. Per addolcire il palato di grandi e piccini, si preparava poi il sanguinaccio (‘u sangu), che si otteneva cuocendo addirittura il sangue dell'animale con il curioso procedimento detto bagnomaria (la cui invenzione pare si debba nientemeno che alla sorella di Mosè che esercitava l'alchimìa), con l'aggiunta di miele di api o di fichi bolliti e, per i palati più raffinati, di latte, cioccolato, pinoli, uva passa, zucchero, cannella, gherigli di noci tagliuzzati, oltre ad alcuni pezzetti di buccia di arancia.

Lu. Ca. Condividi su Facebook



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