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LA TRAGICA SPEDIZIONE ITALIANA IN RUSSIA
Ricostruiamo la storia dell'Armir, il Corpo militare italiano che affrontò la Seconda Guerra Mondiale nell'inferno sovietico Condividi su Facebook


Nel luglio 1941, la prima spedizione italiana in Russia.
Le truppe italiane, inviate sul fronte russo a partire dal luglio 1941, comprendevano la 9ª Divisione fanteria "Pasubio", la 52ª Divisione fanteria "Torino", la 3ª Divisione Celere "Principe Amedeo Duca d'Aosta", le Camicie Nere Legione Tagliamento e il 30º Raggruppamento artiglieria di corpo d'armata, per un totale complessivo di 2.900 ufficiali, 62.000 uomini, 220 pezzi d'artiglieria, 83 aerei, 5.500 automezzi, 4.600 quadrupedi e 61 carri. Una spedizione che partiva con obiettivi ambiziosi, fortemente voluta dalla dittatura fascista, desiderosa di mettersi in mostra nei confronti dell’alleato tedesco, visibilmente sostenuta dalla folle propaganda di regime, che considerava la Russia un nemico ormai vinto, e inconsapevolmente votata al martirio dei poveri giovani mandati alla morte. Sin dall’inizio si capì che la realtà mostrava uno scenario di tutt’altra natura rispetto a quanto incautamente previsto dal regime: dopo l’arrivo delle truppe a Borsa, in Ungheria, il teatro delle operazioni venne raggiunto solo dopo una marcia di centinaia di chilometri che toccò Romania, Moldavia, Bessarabia e Ucraina, e che molti reparti non dotati di automezzi motorizzati dovettero compiere a piedi, con sforzi che è facile immaginare, e con una dispersione che avrebbe determinato la disponibilità dell’intero corpo di spedizione solo il 5 settembre. L'11 agosto, intanto, la divisione Pasubio fu la prima unità italiana ad entrare in conflitto, sotto le dipendenze dell'11ª Armata tedesca del generale Eugen Ritter von Schobert, schierata in Ucraina meridionale, nel settore operativo del Gruppo di Armate Sud guidato dal feldmaresciallo Gerd von Rundstedt. Scenario bellico, quella che passò alla storia come la “Battaglia dei due fiumi”, organizzata dall’esercito tedesco per intrappolare le forze sovietiche tra i fiumi Dniestr a ovest e Bug a est. Le cronache dell’epoca parlano di uno scontro aspro tra le due compagini che durò ininterrottamente per due giorni, al termine dei quali la divisione Pasubio ebbe la meglio su un reggimento sovietico che si ritirò lasciando sul campo centinaia di caduti e prigionieri.

La ritirata del Don segnò la disfatta italiana in Russia.
Ben presto, però, l’esordio positivo della prima battaglia restò un triste ricordo: con i rigori della stagione invernale che bussava alle porte, la permanenza in terra russa si rivelò molto più difficile del previsto. Le terribili temperature, che scendevano anche fino a trenta gradi sotto zero, rappresentavano per i nostri soldati un ostacolo durissimo da superare, forse più dei soldati russi che difendevano il proprio territorio. A causa di attrezzature belliche desuete, con armi a volte risalenti alla prima guerra mondiale, unitamente a vestiari poco consoni a difendersi contro il gelo di quei luoghi, i soldati italiani ben presto compresero che quella in Russia sarebbe stata una disfatta: come scrive Enzo Biagi ne “La seconda guerra mondiale” (Fabbri Editori), nel giugno 1942, a quasi un anno dall’inizio dei combattimenti, su un totale di circa 62.000 uomini, il corpo italiano aveva avuto oltre 1.600 morti, 5.300 feriti, più di 400 dispersi e oltre 3.600 soldati colpiti da congelamento. La situazione, già difficile, peggiorò sensibilmente nei mesi seguenti, fino ad assumere, nell’inverno 1942, i contorni della catastrofe. A metà dicembre l’Armata Rossa, che un mese prima già aveva lanciato una massiccia offensiva volta ad accerchiare le truppe tedesche della 6ª Armata di Paulus bloccate a Stalingrado scatenò un attacco fortissimo anche contro le linee tenute dal II Corpo dell'ARMIR, che custodiva lungo il Don il settore centrale del fronte italiano, e che fu obbligato alla ritirata, con numerose perdite in termini di vite umane.

Circa 60.000 italiani persero la vita in Russia durante la guerra.
Ormai si iniziavano a ravvisare i contorni della disfatta. Alcuni elementi delle divisioni Torino e Pasubio, insieme ai tedeschi della 298ª, riuscirono a resistere a Chertkovo, circondati dai russi, mentre ella conca di Arbuzovka, si consumò un dramma, con più di 20.000 perdite tra morti, dispersi e prigionieri. Restava il Corpo d'Armata alpino, che continuava a tenere le sue posizioni sul Don. Ma i carri armati sovietici, che viaggiavano sul fiume divenuto ormai una lastra di ghiaccio, si preparavano alla seconda fase dello sfondamento, che prese il via nel gennaio 1943 nel corso dell’offensiva Ostrogorzk-Rossoš, costringendo ben presto il Corpo d'Armata alpino in una sacca che includeva le divisioni Julia, Cuneense, Tridentina e Vicenza. La battaglia fu terribile: nessun ordine di ritirata per gli italiani, che in condizioni di chiara inferiorità sacrificarono le proprie vite, con temperature che, nel frattempo, toccavano anche i -42°. La disfatta era compiuta: le cronache dell’epoca ci dicono che, dei 57.000 alpini partiti per il fronte russo, a partire dal 6 marzo tornarono a casa solo in 11.000. In totale, secondo le stime ufficiali dell'Ufficio Storico dell'Esercito italiano, le perdite ammontarono a 114.520 militari su 230.000. Andarono inoltre perduti il 97% dei cannoni, il 76% di mortai e mitragliatrici, il 66% delle armi individuali, l'87% degli automezzi e l'80% dei quadrupedi. A partire dal 1946, e fino al 1954 (anno in cui furono rilasciati gli ultimi 28 prigionieri), vennero rimpatriati dalla Russia 10.030 prigionieri di guerra italiani. L'UNIRR, Unione Nazionale Italiana Reduci Russia, citando fonti delle autorità russe, calcola in circa 100.000 il numero degli italiani dispersi. Considerando che circa 5.000 erano caduti in battaglia prima del 15 dicembre 1942, si può concludere che le perdite della ritirata sono di 95.000 unità. Di essi, si ritiene che circa 25.000 siano morti nel corso della ritirata, combattendo o per gli stenti patiti, e che i restanti 70.000 siano stati fatti prigionieri. Considerando poi che i rimpatriati furono poco più di 10.000, c’è da concludere che circa 60.000 persero la vita in Russia, durante la prigionia, per le condizioni in cui furono costretti a vivere, a causa di epidemie di tifo e dissenteria causate dalle proibitive condizioni igieniche. Solo nel 1989, dopo una lunga campagna promossa dai reduci, è iniziata la restituzione dei primi resti. Qualche anno dopo, è stato consentito l’accesso a 72 dei molti cimiteri di guerra italiani in quel territorio e, nel contempo, sono iniziate le operazioni di rimpatrio di circa 4.000 salme. Tra i cimiteri di guerra russi, il campo 188 di Tambov, a circa 500 km a sud-est di Mosca, costituisce senz’altro quello di maggiori dimensioni. Qui, dal gennaio 1943 al settembre 1945 sono stati sepolti 8.127 italiani, di cui più di seimila solo nei primi sei mesi. Ai caduti della guerra di Russia è dedicato un tempio a Cargnacco, presso Udine, ove sono raccolti anche gli ignoti. In Italia, il riconoscimento giuridico della qualità di ente morale dell'Associazione dei Reduci è stato numerose volte chiesto ed altrettante rifiutato, sino al 1996, quando il Ministero della Difesa concesse finalmente all'UNIRR l'agognato riconoscimento. Meritoria è l'azione dei componenti dell'UNIRR che attraverso memoriali, difficili ricerche negli archivi ex-sovietici e visite dirette sui luoghi ricercano, e spesso trovano ancora oggi, le fosse comuni dei gulag e dei campi di transito dove furono frettolosamente inumati i caduti italiani prigionieri dei sovietici.

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